Desformes

Alla base della serie vi è un' indagine sul corpo dominata da un procedimento costruttivo dell’immagine di tipo scultoreo. Tale ricerca si intreccia con la percezione della bellezza disinteressata. Osservando "DESFORMES" ci si sofferma sul rigore geometrico dei volumi scolpiti dalla luce. I corpi come statue che rievocano le nudità classiche intrecciate con oggetti contemporanei. Sono diversi i grandi maestri che hanno influenzato questo progetto: Da "Rodin" a "Brancusi" da "Man Ray" a "Mapplethorpe". E' una realta' minimalista, nella quale le sculture si collocano nello spazio con naturalezza, avvolte da un bianco assoluto, quasi asettico. Le installazioni sono infine documentate attraverso la fotografia, che le rende effimere e intangibili. Questa realtà esiste solo nella fotografia stessa.  

[Luca Izzo]

Desformes: alla ricerca dell’appercezione
Introduzione critica di Sandro Iovine
 
«È inteso che una presenza così irriducibile come quella dell’io non ha il suo posto in un universo intelligibile, reciprocamente, quest’universo esteriore non ha il suo posto in un io se non con l’aiuto di metafore» [1] 
Georges Bataille
 
La ricerca svolta attraverso l’osservazione del corpo presuppone, nel momento in cui si contestualizza all’interno di una scenografia ancorché minimalista, la messa in relazione tra il soggetto e quanto lo circonda. Se la realtà circostante è kantianamente tale solo in funzione della presenza di un soggetto in grado di concepirla, quale è il senso della ricerca iconica stessa? Essa è pensata (e quindi esiste) in relazione all’autore che ne gestisce e modella la forma sulla base della personale speculazione. La sua concezione prende vita attraverso il corpo che in essa viene rappresentato e alla reazione che a questo si impone nella determinazione della posa e degli oggetti scenici. Una ricerca di questo tipo non scaturisce dunque dal prelievo incontaminato di una porzione di reale, ma dalla messa in opera di un pensiero cui viene attribuita una forma fisica.
 
Su cosa dunque specula l’immagine? Sul tentativo di superare la semplice percezione per raggiungere la percezione della percezione, per dirla con Leibniz. Il processo di proiezione degli interrogativi dell’autore si concretizza quindi nel rendere i corpi privi di un’identificabilità che non sia affidata unicamente alla maschera. In questo si può leggere contemporaneamente sia l’aspirazione all’occultamento dell’individualità dell’autore stesso sia la volontà di rendere universale il corpo rappresentato. Di fatto si tratta di corpi che si ripiegano su se stessi alla ricerca di un baricentro di significato che li attui e definisca nel mondo. Un mondo rappresentato come un’assenza con cui mettersi in rapporto. Il vuoto, sovente generatore di horror vacui, qui non cede alla lusinga cenofobica e il bianco si concede come spazio di riflessione in cui lo spettatore possa esperire visivamente una ricerca di attribuzione di significato sul corpo.
 
Un corpo che si flette e si deforma, che si riflette nel nostro tempo carico di immagini sintetizzate in uno schermo televisivo, specchio deformante del contemporaneo, che si confronta con la materia della pietra la cui forma rimanda all’uovo con il suo portato simbolico che insiste sull’origine dell’esistenza e sul femminile. Un corpo che sembra distante dall’appercezione evocata dalla scritta METAFISICA che lo sovrasta, specchiata, in una dimensione altra il cui confine è segnato labilmente dal passaggio di toni sullo sfondo. Un corpo senza testa che si confronta con l’enfasi dell’erudizione attorcigliata su se stessa, come l’eidetica pila di libri che lo affianca. Un corpo senza testa inscritto in un triangolo isoscele che perde la sua bidimensionalità per tentare un’incursione nello spazio con i due vertici inferiori che sembrano volerlo abbracciare.
 
Interessante come, nell’intreccio dei simboli, questi si rincorrano. Al quadrato o al rettangolo delle facce dei cubi o dei parallelepipedi (simboli maschili) su cui insistono i soggetti rappresentati, si contrappongono le linee curve dei corpi (simboli femminili). Energie virili ed energie muliebri che si fronteggiano nella giustapposizione simbolica, fondendosi talvolta in un unicum, come nelle linee spiraleggianti della pila di libri.
 
L’autore non risolve l’interrogativo su cosa sia il corpo, lo rimette allo spettaore. Non sta all’artista infatti rispondere per gli altri. Il suo compito è quello di puntare il dito per stimolare la riflessione. Luca Izzo lo fa tendendo un ponte tra l’astrazione della ricerca metafisica e la concretezza delle immagini di generazione fotografica e in quei rarefatti riferimenti alla contemporaneità e ai suoi riti, evocati dall’immersione dei corpi nello schermo televisivo e nelle suppellettili d’arredo che definiscono il quotidiano.
 
 
[1] Georges Bataille, Figura umana in Documents, Edizioni Dedalo, Bari, 2009; pag. 63.
 
 
Desformes
Introduzione critica di Giovanni Pelloso
 
Il corpo mannequin è silenzioso. Il corpo-vissuto, manifestazione di esperienza e di conoscenza, espressione della soggettività, lascia spazio a un corpo anatomico privo di storicità.
Il corpo vetrinizzato deve esibire la propria esistenza. Il corpo-display, fenomeno di spettacolarizzazione e di comunicazione visiva, risulta espressione di un obbligo sociale inevitabile, di un’economia finzionale, quella della messa in scena.
Il corpo spogliato e senza volto marcia solitario privo di un’identità, ma sempre disposto a vestire abiti diversi. Feticcio anonimo, superficie di contatto, ciò che lo distingue è il suo essere preda e bambola.
Il corpo totemico, verticale, statico, è pronto a farsi idolo. Così nella realtà come sul proprio schermo, su nuovi e vecchi media.
 
Non è la trasgressione a interessare la sua azione artistica e nemmeno l’idea di offrire con la fotografia il segno di un’ossessione. Nessuna eco gloriosa risuona dalla grecità riguardo l’esaltazione estetica della bellezza. Come non v’è traccia di ironia e di paradosso. Ciò che conduce Luca Izzo ad affondare una progettualità che si fa investigazione, prim’ancora che performance, è la rappresentazione di un culto, quello per il corpo, che l’uomo della società dell’immagine usa e consuma. Perfetto, senza limiti né inibizioni, perlopiù recettore dello sguardo altrui, il corpo appare il luogo di un Io dissociato. Ciò che è portato alla luce in un bianco lattiginoso, atemporale, non giunge dalla memoria, ma risiede in una visione che si esternalizza e che il medium concorre a eternizzare. Un accumulo di sensazioni e di rimandi che agiscono su un corpo che è cosa (forma concreta) e che acquista significato dentro il rigore geometrico dei volumi e la loro disposizione. L’illusione di essere di fronte a un soggetto unitario decade quando a rivelarsi è il possibile, la transitorietà, la modularità.
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